Sabato 17 aprile 2004





Niente donne alle nostre rimpatriate. Solo maschi: operai; più alcuni cooptati strada facendo oppure occasionali. Come due miei colleghi di università, Claudio e Oscar, che a suo tempo - sempre quello: "Manifesto", "150 ore" ecc. - hanno conosciuto alcuni dei presenti. Ad un pranzo operaio con molte donne presenti, ho partecipato una sola volta, agli inizi degli anni Ottanta. Nastratrici, bobinatrici; toste, tutte che tenevano banco. All'incontro, amicale e di reparto, mi ci aveva portato Ugo che in passato era finito a lavorare in mezzo a loro dopo aver subito l'onta del "declassamento". Ugo aveva incassato bene, era simpatico e non aveva mostrato la spocchia dello specializzato decaduto - era tornitore. Le donne avevano apprezzato; da qui la sua popolarità.
Oggi a mangiare siamo a Pedemonte da Rosa. Una casettina piccola e antica stretta tra due mulattiere che si incontrano quasi davanti all'entrata. Tutti ricordano quando un po' di mesi fa Rosa ci aveva fatto le lattughe ripiene. Ci saranno anche oggi? Nei posti che scegliamo per i nostri incontri, a governare la cucina sono quasi sempre le donne. "Non sarà più facile che tornire" dico io. I compagni ridono. Racconto che parecchi anni fa avevo intervistato un'operaia di una fonderia. Era in pensione da tempo e si definiva una "sopravvissuta" perché "quelle che lavoravano con me se ne sono già andate, tutte; ma proprio tutte, sa; e mica in pensione...". Oggi, diceva, la fonderia è un lavoro duro ma allora - si riferiva al periodo tra gli anni Trenta e Cinquanta - era durissimo. "Sporcizia, polvere a non finire; silicosi assicurata. Magari era per quello che c'eravamo così tante donne". All'Ansaldo di Campi, la fabbrica dei miei amici che un tempo era chiamata Elettromeccanico, dalla fine degli anni Sessanta niente donne nei reparti. Pippo dice che quando lui ha cominciato a lavorare, nel 1968, le poche che c'erano - "quasi segregate" - erano "nastratrici" o impiegate al collaudo e nei laboratori. Qualcuna - "mosche bianche" precisa - c'è ancora ma oggi a fare il lavoro di quelle donne ci sono le macchine. Rispetto a 25 anni fa oggi una macchina fa lo stesso lavoro di 10 di loro in un decimo del tempo.
Ugo approfitta per ricordare che in passato l'opinione corrente era che "nastrare" fosse un lavoro da donne perchè richiedeva una mano fine, leggera. Lo dicevano, osserva ironico, anche a Camporsella - una località collinare poco distante - dove per la raccolta delle fragole si impiegavano solo donne. In verità, commenta, entrambi erano lavori pesanti e ripetitivi e le donne erano solo più disponibili. Con le fragole, a peggiorare la situazione, c'era che bisognava stare accucciate per ore. Oltre a essere pagate meno, in passato le donne erano la valvola di sicurezza degli stabilimenti: si ricorreva a loro quando mancavano gli uomini come durante la prima e la seconda guerra. Poi, quando la situazione tornava normale, venivano spedite a casa. In fabbrica - ricorda Elio col suo proverbiale distacco - restavano solo quelle "speciali": vedove, ragazze madri o altre che magari erano l'unico sostegno di genitori anziani. "Derelitte" che per sopravvivere "dentro", finivano per cercare l'aiuto di qualcuno, un capo per lo più...
Dopo le parole di Elio, a tavola, per qualche secondo è caduto il silenzio. Lo stesso che in genere accoglie i ricordi penosi. Poi il clima è tornato casinaro. Qualcuno si deciderà a calare l'asso? L'ultima volta gli argomenti più interessanti sono usciti quando stavamo per scioglierci. A sorpresa è venuto fuori Luigi; a sorpresa perché pensavo che avrebbe preso tempo. Alto, massiccio, Luigi è un tipo riflessivo; non di quelli che allunga per primo la mano sul tavolo. L'ho conosciuto alla fine del '67 e da allora il nostro sodalizio è continuato. A cominciare da quando ha deciso di prendere la licenza media. Una o due volte la settimana raggiungeva la casa che allora abitavo con altri amici: qui aveva ripreso contatto con i libri abbandonati quasi 10 anni prima. Nato nel 1947, entrato in fabbrica quando aveva poco più di 15 anni, a Luigi studiare piaceva. Ma ai suoi era parso un lusso insostenibile; era finito in una scuola di avviamento al lavoro: l'anticamera della fabbrica. In seguito, diventato operaio, aveva frequentato un corso serale di disegno industriale. La licenza media era stata una gran fatica; una vittoria non da poco. All'epoca, il 1970, ancora non te la tiravano dietro. Arrivava da noi dopo il lavoro e se ne andava a notte fatta. Una volta tornando a casa si era addormentato alla guida della sua Seicento ed era finito in un fosso.
"Guarda un po' questa roba - dice Luigi come se fosse cosa tra noi due - se magari interessa quello che vogliamo fare". Così facendo prende da sotto la sedia una borsa di stoffa, di quelle che i bottegai danno ai clienti più affezionati, e me la porge. Dentro, stivatissimo, c'è un corposo pacco di carte: si intravvedono volantini, fogli manoscritti e a stampa, ritagli di giornale, fascicoli di varia natura. "C'è tutto quello che ho tenuto da parte, da quando sono andato a lavorare nel '62 fino a quando mi han messo in mobilità e poi in pensione.
- Dall'inizio? Dal '62?
- Veramente da dopo... mi pare dal '66 o '67.
- E da allora "tutto"?
- Tutto quello che al momento mi sembrava importante. Che non sarà neanche il 5% di quello che mi è passato per le mani in 35 anni.
I presenti incuriositi e stupiti. Non per il fatto che Luigi abbia conservato dei materiali; piuttosto che abbia pensato di poterli utilizzare per il nostro progetto. All'inizio avevamo parlato di oggetti e un archivio personale (la parola è mia) non era considerato tale. Ma è bastato il gesto di Luigi perché tutti si convincessero che era una buona idea. Chiedo a Luigi se era da molto tempo che non metteva mano a quelle carte e se prima di portarle ha eliminato qualcosa. Risponde alla prima domanda con un gesto come dire "una eternità". Quanto al togliere qualcosa, sì ha buttato via un po' di fogli ma nessuna censura; era roba che gli sembrava "proprio inutile". Nell'ipotesi che altri seguano il suo esempio mi produco in un appello. Le cose che a suo tempo abbiamo deciso di conservare vanno mantenute per quel che sono e possibilmente nell'ordine che avevano al momento della costituzione del deposito. Tutti i documenti sono utili e, se ne abbiamo conservato alcuni che in seguito ci appaiono superflui, sono comunque importanti per ricostruire cosa pensavamo al momento in cui abbiamo deciso di conservarli. Se si procedesse solo in base al senno di poi sarebbe difficile capire come eravamo e cosa pensavamo... Ecco perché mi porterò la borsa a casa così com'è, ne farò un inventario di massima e riferirò agli altri. I quali per tutto il tempo del mio comizio hanno continuato a guardare la borsa con molta curiosità aspettando il momento in cui l'avrei rovesciata sul tavolo.
Il seguito della conversazione conferma: tutti i presenti sono convinti che gli archivi personali sono importanti. Si scopre inoltre che, tra i presenti, quasi tutti possiedono un deposito simile a quello esibito da Luigi. Oltre le buste paga e le comunicazioni della direzione tutti hanno conservato "qualcosa" della loro vita nello stabilimento: tessere di partito e sindacali, volantini, quaderni di appunti relativi alla lavorazione di alcuni pezzi, oltre si capisce ritagli di giornale, giornalini di fabbrica, biglietti di viaggio e foto relativi ad episodi di vita comune. Come quando un gruppo di loro nel 1980 è partito per i luoghi del terremoto in Irpinia. Pippo ad esempio ricorda di aver delle foto della sua uscita dal carcere dopo che, all'inizio dell'estate del '72, un magistrato noto forcaiolo ce l'aveva tenuto una decina di giorni, con accuse rivelatesi inconsistenti. Così, di botto, qualcuno ricorda che in seguito all'arresto di Pippo, la fabbrica compatta aveva fatto uno sciopero di un quarto d'ora. "Allora eravamo vivi" osserva Luigi. E' la prima allusione alle lotte che dalla fine degli anni Sessanta in Italia avevano investito le fabbriche, Ansaldo compresa.
La battuta di Luigi è raccolta da più d'uno. Emergono altri ricordi relativi a quegli anni e alla "repressione". Piccoli episodi - collocabili tra fine anni Sessanta e primi Settanta - che hanno il potere di ricreare un clima: la tensione morale e politica di allora, le parole d'ordine delle manifestazioni, gli incontri con gli "studenti". Con l'apparizione dell'archivio di Luigi, sul tavolo della trattoria hanno preso a volteggiare - virtualmente, si capisce - decine di migliaia di fogli, volantini sindacali e politici con data e senza (ma ci sono anche quelli a cui Luigi l'ha aggiunta di suo pugno), ritagli di giornale, fogli aziendali che difficilmente hanno superato il primo numero, appunti e promemoria. Gli autori delle raccolte, che sono lì attorno al tavolo, sono i primi ad essere stupiti; come se avessero dimenticato di aver dato vita loro stessi a qualcosa del genere. Impreparati a vedere tutta quella carta messa assieme all'insaputa uno dell'altro. All'insaputa ma non furtivamente: Pippo dice che, sin dal suo ingresso in fabbrica nel 1969, gli era apparso "naturale" intraprendere una simile raccolta. Lo facevano anche molti impiegati, aggiunge: ma loro si facevano piuttosto copie di documenti interni. Eventualmente per difendersi da qualche accusa o, chissà, per qualche fine meno nobile. Altri tra i presenti confermano. Tra gli impiegati, dicono, era una mania, che con l'era delle fotocopie si è poi trasformata in uno sport di massa. Niente a che fare con i materiali conservati dall'operaio.
Ancora a proposito dell'archivio personale: i posti dove ognuno lo conserva o lo ha conservato. Sulla base di quanto è stato detto risulta che, sin dall'inizio della raccolta, le carte hanno avuto un posto preciso che per molti dei presenti era il comodino, in camera da letto. Comodini rimasti nelle camere da letto anche quando non erano più utilizzati per metterci i vasi da notte. La cosa è riferita prima con imbarazzo e poi ridendo. In seguito, messa su famiglia, i depositi hanno avuto collocazioni più defilate ma sempre precise. Oggi si trovano per lo più in scatole in qualche angolo della cantina.
Durante l'incontro si è parlato quasi esclusivamente delle carte che molti di loro hanno conservato. Ogni raccolta, ho osservato, rivela ciò che per ognuno è stato più o meno importante nel corso degli anni; comunque ciò che si intendeva conservare. Sono dunque loro i primi chiamati ad interpretare la raccolta. Il loro archivio è anche una risposta alla domanda "chi conserva le carte delle persone prive di importanza?". Hanno giudicato quelle carte significative della storia che andavano vivendo. Ma hanno fatto qualcosa di più che considerarle utili: le hanno anche conservate, scegliendole tra altre. Ecco perché ogni pacco di carte è prezioso: perché corrisponde a come ognuno di loro ha vissuto la fabbrica. Attorno alle mie battute che suggeriscono come dello stabilimento esistano tante esperienze e, di riflesso, altrettante storie, sento aleggiare la consueta perplessità. Di nuovo l'impressione di essermi infilato in un vicolo cieco. Per fortuna si è tornati ai motteggi.
Gli archivi operai avranno un posto nel museo? Sono solo una rappresentazione dell'operaio che li ha prodotti o anche d'altro? L'archivio di Luigi ha rivelato un mondo alfabeta, capace di organizzare materiali per conservare memoria di fatti, tracce solide del proprio vissuto di fabbrica. Un mondo interessato a archiviare documenti non in vista della famosa storia con la esse maiuscola ma per rispondere ad una esigenza di completezza della propria condizione morale e materiale presente.
La possibilità di raccogliere qualche centinaio di archivi come questo ha fulminato un po' tutti; quasi contemporaneamente e senza il dubbio che di solito sopravviene di fronte alle idee che sbocciano di colpo. Tant'è che quando faccio la proposta se non si potrebbe cercare di coinvolgere lo SPI (il Sindacato dei pensionati aderenti alla CGIL - che sono una buona metà degli iscritti della locale Camera del lavoro) nella raccolta degli "archivi operai" tutti la giudicano ottima.
Pacian, forse impressionato del fascino che tutti sembrano provare di fronte alle masse cartacee, ha obiettato che il museo non dovrebbe contenere solo "fogli di carta" ma anche cose materiali. "Abbiamo passato la vita a tracciare, tornire, trapanare, alesare, saldare milioni di pezzi. Un posto nel museo dovremo ben trovarglielo, no?". Pacian, 55 anni, viene da un piccolo comune della Valle Stura, antico polo industriale dell'Oltregiogo, al tempo dell'energia idraulica. Suo padre era già un operaio ma la cultura di famiglia è contadina. Di Pacian si dice che maneggi la penna come una picozza - alludendo così alla sua scarsa dimestichezza con la scrittura - ma tutti riconoscono la validità dei suoi richiami alla concretezza. E non solo quando si parla del museo. Pacian è un elemento prezioso: lui riesce a vedere le cose di cui parla e, anche per questo, meno di altri si lascia travolgere dall'entusiasmo per le parole o le formule.
Ancora sull'archivio di Luigi: non comincia col suo ingresso in fabbrica ma dal '67, quasi 5 anni dopo. In quell'anno Luigi vive la prima esperienza - l'affermazione è sua - politica e sindacale autonoma. In seguito ad una inchiesta sulla condizioni della giovane classe operaia della fabbrica si era formato un comitato che tra il '67 e il '68 si era aperto ad alcuni "studenti". Era stata una esperienza cruciale grazie alla quale aveva cominciato a ripensare la sua condizione di operaio. La raccolta dei materiali era nata, non casualmente, allora. Se in seguito procederemo con raccolte simili sarà importante accompagnarle ad una intervista dove l'interessato chiarisca suggestioni e tempi della sua iniziativa.
Il pranzo è stato splendido, a cominciare dall'insalata russa: sembra che Rosa applichi una ricetta segreta.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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